L’« io » – quarta parte costitutiva dell’entità umana.

O.O. 13 – La scienza occulta nelle sue linee generali – (II)


 

La quarta parte costitutiva, che la conoscenza soprasensibile assegna all’uomo,

non ha più niente di comune col mondo visibile che circonda l’uomo,

ma è ciò che lo distingue di fronte agli altri esseri che vivono con lui,

è ciò per cui egli è la corona della creazione a cui appartiene.

 

Per formare una rappresentazione di questa ulteriore parte costitutiva dell’entità umana, la conoscenza soprasensibile mostra che anche entro l’ambito delle esperienze allo stato di veglia vi sono differenze essenziali. Queste saltano subito agli occhi, quando l’uomo consideri che allo stato di veglia da un lato si trova continuamente in mezzo a esperienze che debbono di necessità andare e venire, e dall’altro a esperienze in cui ciò non si verifica.

 

In modo speciale questo risulta evidente, quando si paragonino le esperienze dell’uomo con quelle degli animali. Questi risentono con grande regolarità le influenze del mondo esterno, e acquistano coscienza sotto l’influenza del caldo e del freddo, del dolore e del piacere e, in determinate condizioni regolarmente ricorrenti del loro corpo, della fame e della sete. La vita dell’uomo non si esaurisce in queste esperienze: egli può sviluppare bisogni e desideri che vanno al di là di tutto ciò.

 

Per l’animale si può sempre rintracciare dentro al corpo o al di fuori di esso

— se si sa guardare abbastanza addentro — la causa determinante di un’azione o di una sensazione.

Questo non è affatto il caso per l’uomo;

egli può sviluppare desideri e bisogni la cui origine non risiede né fuori né dentro al suo corpo.

Quanto rientra in questo campo va attribuito a una sorgente speciale

che per la scienza soprasensibile è l’« io » dell’uomo.

 

L’« io » si considera quindi come la quarta parte costitutiva dell’entità umana.

• Se il corpo astrale fosse lasciato a se stesso,

si svolgerebbero in lui i sentimenti di piacere e di dolore e le sensazioni di fame e di sete,

ma non si svilupperebbe la sensazione che in tutto ciò vi è qualcosa che permane.

• Non è ciò che permane, preso come tale,

ma ciò che esperimenta la sensazione di qualche cosa che permane, che noi chiamiamo « io ».

 

In questo campo bisogna avere concetti ben netti, se si vogliono evitare equivoci.

• Col divenire coscienti di qualcosa di durevole, di permanente in mezzo al mutare delle esperienze interiori,

comincia a spuntare il « sentimento dell’io ».

 

• Il fatto che un essere ha fame non può dargli il sentimento dell’io. La fame si presenta quando le cause ricorrenti che la provocano si fanno sentire nell’essere. Esso si getta sul cibo appunto perché vi sono quelle cause ricorrenti. Il sentimento dell’io sorge quando non solo queste cause ricorrenti spingono alla nutrizione, ma quando si è precedentemente provato il piacere di saziare la fame, ed è rimasta la coscienza di questo piacere, in modo che al cibo si sia portati non solo dall’esperienza attuale della fame, ma anche da quella del piacere passato.

 

• Come il corpo fisico si disgrega quando non lo tiene assieme il corpo eterico,

• come il corpo eterico cade nell’incoscienza quando non lo illumina il corpo astrale,

• così il corpo astrale dovrebbe lasciar cadere il passato continuamente nell’oblio,

se l’« io » non portasse in salvo tale passato per il presente.

 

L’oblio per il corpo astrale equivale alla morte per il corpo fisico e al sonno per il corpo eterico.

 

Si può anche dire:

• del corpo eterico è propria la vita,         • del corpo astrale la coscienza,          • dell’io il ricordo.

 

 

Anche più facile dell’errore di attribuire alle piante la coscienza, è quello di parlare di memoria nell’animale.

Vien fatto facilmente di pensare alla memoria quando si vede un cane riconoscere il padrone dopo una lunga assenza. Ma in verità il riconoscimento non poggia affatto sulla memoria, ma su qualcosa di completamente diverso. Il cane sente una certa attrazione per il suo padrone; essa emana dalla natura di quest’ultimo. Tale natura procura al cane piacere, quando il padrone è presente, ed è causa di un rinnovarsi del piacere ogniqualvolta si ripete il fatto della presenza del padrone.

Ma il ricordo si ha soltanto quando un essere, oltre a sentire le sue esperienze presenti, conserva quelle del passato.

 

Si potrebbe però anche ammettere questa distinzione, e tuttavia cadere nell’errore di credere che il cane abbia memoria. Si potrebbe infatti dire: « Il cane resta triste quando il padrone lo ha lasciato, quindi gli rimane il ricordo di lui ». Ma questo è un giudizio non giusto. A seguito della convivenza col padrone, la presenza di questo diventa un bisogno per il cane, e quindi esso sente l’assenza del padrone così come sente la fame. Chi non fa queste distinzioni non arriverà mai a veder chiaro sui veri fatti della vita.

 

In base a certi preconcetti si obietterà che non è possibile sapere se l’animale possegga qualcosa di simile alla memoria umana. Questa obiezione si fonda sopra un’osservazione imperfetta. Chi è in grado di osservare in modo adeguato come l’animale si comporti in relazione alle sue esperienze, potrà notare la differenza fra questo comportamento e quello dell’uomo, e rilevare appunto che l’animale si comporta nel modo che corrisponde all’assenza di memoria. Per l’osservazione soprasensibile ciò è senz’altro evidente; ma anche la percezione sensibile e la sua elaborazione concettuale possono riconoscere dagli effetti percepibili ciò che si manifesta in modo diretto all’osservazione soprasensibile.

 

A base dell’affermazione che l’uomo conosca la propria memoria per mezzo dell’introspezione, che invece egli non può applicare all’animale, sta un errore grave. L’uomo infatti non può per nulla ricavare dall’introspezione l’opinione che egli si fa della propria capacità mnemonica, ma solo dall’esperienza del proprio rapporto con le cose e i processi del mondo esterno. Ora queste esperienze egli le fa allo stesso modo con se stesso, con un altro uomo e anche con gli animali.

 

È solo una fallace apparenza quella che fa credere all’uomo che egli giudichi dell’esistenza della memoria soltanto in base all’osservazione interiore. Potremmo chiamare interiore la forza che sta a base della memoria; ma il giudizio su questa forza viene acquistato, anche per la propria persona, a contatto del mondo esterno, mediante l’osservazione dei rapporti tra i fenomeni della vita. E di questi rapporti possiamo giudicare per noi stessi, come pure per gli animali. Relativamente a questi problemi la nostra psicologia abituale soffre dei suoi concetti del tutto inesatti, imprecisi, altamente fallaci per errori di osservazione.

 

Memoria e oblio rappresentano per l’« io » qualcosa di analogo a quel che veglia e sonno rappresentano per il corpo astrale. Come il sonno fa scomparire nel nulla le preoccupazioni e i tormenti del giorno, così l’oblio distende un velo sopra le brutte esperienze della vita cancellando così una parte del passato. E come è necessario il sonno per il ricupero delle forze vitali esaurite, così è necessario che l’uomo sopprima dalla memoria certe parti del passato, per poter affrontare nuove esperienze liberamente e senza preconcetti.

 

Precisamente dal dimenticare cresce in lui vigore per la percezione di cose nuove. Si pensi a fatti come l’imparare a scrivere: tutti i particolari attraverso cui deve passare il bambino per imparare a scrivere si dimenticano; ciò che rimane è la capacità dì scrivere. Come potrebbe l’uomo compiere tale azione, se ogni volta che deve eseguirla risorgessero nell’anima sua i ricordi di tutte le esperienze che ha dovuto attraversare per imparare a scrivere?

 

Occorre distinguere diversi gradi della memoria.

• La forma più semplice di memoria si ha quando l’uomo percepisce un oggetto e, dopo l’allontanamento da esso, ne può far risorgere la rappresentazione.

 

L’uomo si è formato quella rappresentazione mentre percepiva l’oggetto. Si è svolto allora un processo fra il suo corpo astrale e il suo io: il corpo astrale ha fatto divenir cosciente l’impressione esterna dovuta all’oggetto, ma la conoscenza dell’oggetto durerebbe solo fino a tanto che esso è presente, se l’io non accogliesse in sé e facesse sua tale conoscenza.

 

Qui, a questo punto, l’osservazione soprasensibile segna la separazione fra il corporeo e l’animico.

Si parla di corpo astrale finché si ha in vista il sorgere della conoscenza di un oggetto presente,

ma si chiama anima ciò che dà durata alla conoscenza;

da quanto si è detto si vede però subito come sia strettamente legato nell’uomo il corpo astrale

con la parte dell’anima che conferisce durata alla conoscenza.

 

In certo modo l’uno e l’altra formano una sola parte costitutiva dell’entità umana,

e perciò spesso si indica questa riunione sotto il nome di corpo astrale.

• Quando si vuole però un’indicazione esatta si chiama il corpo astrale dell’uomo corpo animico,

e l’anima — in quanto essa è unita a quel corpo — anima senziente.

 

L’io sale a un gradino più alto del suo essere,

quando dirige la sua attività su ciò che della conoscenza degli oggetti ha accolto in sé e fatto suo.

È questa l’attività mercé la quale l’io si svincola sempre più dagli oggetti della percezione,

per lavorare nel suo proprio campo.

La parte dell’anima, cui ciò spetta, si può chiamare anima razionale.

 

È proprio tanto dell’anima senziente quanto dell’anima razionale

di elaborare ciò che esse ricevono attraverso le impressioni degli oggetti percepiti dai sensi

e di cui conservano memoria.

• Qui l’anima è completamente assorbita da qualcosa di esterno ad essa;

ha invero ricevuto dall’esterno anche ciò che ha potuto assimilare grazie alla memoria;

ma la sua attività può salire a gradi più alti.

 

Non è soltanto anima senziente e anima razionale. La visione soprasensibile può dare facilmente un’idea dello stadio ulteriore, richiamando l’attenzione sopra un fatto semplice che deve però essere apprezzato nel suo profondo significato.

È il fatto che in tutto il campo del linguaggio vi è un unico nome

che per la sua essenza si distingue da tutti gli altri nomi: il nome « io ».

Ogni altro nome può essere dato alla cosa o all’essere cui si riferisce da ogni uomo.

 

« Io », come indicazione di un essere,

ha senso soltanto se l’essere l’adopera per indicare se stesso.

 

La parola « io » non può mai penetrare dal di fuori nell’orecchio di un essere umano come suo appellativo;

solo l’essere stesso può applicarla a sé.

« Io sono un io solo per me; per ogni altro sono un tu, e ogni altro è per me un tu ».

Questo fatto è l’espressione esterna di una verità di profondo significato.

L’essenza propria dell’io è indipendente da tutto ciò che è esterno;

per questa ragione non può essere chiamato col suo nome da niente che gli sia esterno.

 

Le confessioni religiose, che coscientemente hanno conservato la loro connessione con la visione soprasensibile,

chiamano la parola « io » il « nome impronunziabile di Dio » perché, quando si usa questa espressione,

si allude proprio al fatto ora accennato.

 

Niente di esterno ha accesso alla parte dell’anima umana di cui ora parliamo.

È il « santuario nascosto » dell’anima, in cui può riuscire a penetrare soltanto un essere della sua stessa natura.

« Il Dio che abita nell’uomo parla quando l’anima stessa si riconosce come io ».

 

Come l’anima senziente e l’anima razionale vivono nel mondo esterno,

così un terzo elemento dell’anima si immerge nel divino, quand’essa perviene alla percezione della propria essenza.

 

Questo potrebbe facilmente far sorgere il malinteso che simili concezioni considerino l’io come una cosa sola con Dio. Esse però non affermano per nulla che l’io sia Dio, ma soltanto che è della stessa natura e della stessa essenza del divino. Ritiene forse alcuno che la goccia d’acqua presa dal mare sia il mare, quando dice che la goccia è della stessa essenza o sostanza del mare?

 

Se si vuol fare un paragone, si può dire che l’io è alla Divinità quel che la goccia è al mare.

L’uomo può trovare in sé un che di divino, perché la sua più caratteristica essenza proviene dal divino.

L’uomo raggiunge, per mezzo di questo terzo elemento della sua anima, una conoscenza interiore di se stesso,

così come per mezzo del corpo astrale raggiunge una conoscenza del mondo esterno.

Per questo la scienza occulta chiama questo terzo elemento dell’anima anima cosciente.

 

E considera la parte animica dell’uomo costituita da tre elementi:

l’anima senziente, l’anima razionale e l’anima cosciente,

così come la parte corporea è costituita da tre elementi: il corpo fisico, il corpo eterico e il corpo astrale.

 

Errori di osservazione psicologica, simili a quelli che abbiamo ricordati a proposito del giudizio sulla facoltà mnemonica, rendono difficile anche una giusta visione della natura dell’io. Alcune argomentazioni che si crede di aver afferrato si possono prendere per una confutazione di quanto è stato esposto a questo riguardo, mentre in realtà ne sono una conferma.

 

Questo vale ad esempio per le seguenti osservazioni sull’« io » di Eduard von Hartmann (nei suoi Elementi di psicologia):

• « Anzitutto l’autocoscienza è più antica della parola io. I pronomi personali sono un prodotto piuttosto tardivo dell’evoluzione del linguaggio, e non hanno che significato di abbreviazioni. La parola « io » è un breve surrogato per il nome proprio di chi parla, ma un surrogato che ogni persona che parla usa per se stessa, qualunque sia il nome col quale gli altri lo chiamano. L’autocoscienza può svilupparsi notevolmente presso animali e presso uomini sordomuti non educati, anche senza ricollegarsi a un nome proprio. La coscienza del nome proprio può sostituire completamente il mancato uso dell’« io ». Riconoscendo questo fatto viene a cadere quell’alone magico che per molta gente riveste la parolina « io »; essa non può aggiungere proprio nulla al concetto di autocoscienza, dal quale anzi riceve tutto il suo contenuto ».

 

Possiamo essere perfettamente d’accordo con queste opinioni, e anche col fatto che non si deve attribuire alcun alone magico alla parolina « io », il che farebbe soltanto offuscare lo studio spassionato del problema. Ma per l’essenza di una cosa non ha importanza decisiva in che modo sia venuta gradualmente a formarsi la denominazione della cosa stessa. Il vero problema è piuttosto la vera entità dell’io nell’autocoscienza « è più antica della parola io », e che l’uomo è obbligato ad applicare questa parola, con quelle caratteristiche tutte sue, a ciò che, nei suoi scambievoli rapporti col mondo, egli sperimenta in modo diverso da come lo può sperimentare l’animale. Come non possiamo conoscere nulla di essenziale sul triangolo se studiamo come si sia formata la parola « triangolo », così non ci dice nulla di decisivo sulla natura dell’io lo studio dell’origine di questo vocabolo nell’evoluzione del linguaggio.

 

Nell’anima cosciente comincia a rivelarsi la vera natura dell’io.

Ché mentre attraverso la sensazione e l’intelletto l’anima si abbandona ad altre cose,

come anima cosciente essa afferra la sua propria essenza.

Quindi l’io non può essere percepito dall’anima cosciente in altro modo che per mezzo di una certa attività interiore.

 

Le rappresentazioni degli oggetti esterni si formano così come gli oggetti vanno e vengono;

e queste rappresentazioni continuano a lavorare nell’intelletto per forza propria.

Ma quando l’io deve percepire se stesso, non basta che esso semplicemente si offra;

per attività interiore, deve prima estrarre dalle sue profondità la propria essenza, per poterne acquistare coscienza.

 

Con la percezione dell’io — con l’autoconoscenza — comincia un’attività interiore dell’io.

Per questa attività la percezione dell’io nell’anima cosciente ha per l’uomo un tutt’altro significato

che l’osservazione di tutto quanto si avvicina a lui attraverso i tre elementi corporei e gli altri due elementi animici.

 

La forza che svela l’io nell’anima cosciente è quella stessa che si manifesta ovunque altrove nel mondo;

solo che nel corpo e nelle parti costitutive inferiori dell’anima essa non appare direttamente,

ma si rivela per gradi nei suoi effetti.

• La sua manifestazione più bassa è quella che si ha nel corpo fisico;

poi per gradini si sale fino al contenuto dell’anima razionale.

 

Si potrebbe dire che a ogni gradino che si sale cade uno dei veli che rivestono l’arcano.

Con ciò che riempie l’anima cosciente l’arcano entra senza veli nel sacrario dell’anima.

Tuttavia appare qui proprio soltanto come una goccia del mare spirituale che tutto compenetra;

e qui innanzi tutto l’uomo deve afferrare la spiritualità.

La deve riconoscere in se stesso, poi potrà trovarla anche nelle sue manifestazioni.

 

Ciò che qui penetra come una goccia nell’anima cosciente

è quello che la scienza occulta chiama spirito.

 

L’anima cosciente si collega così con lo spirito, il quale è la parte nascosta di tutto ciò che è manifesto.

• Se l’uomo vuole afferrare lo spirito in tutto il mondo manifesto,

deve farlo nello stesso modo in cui afferra l’io nell’anima cosciente.

• Deve rivolgere al mondo manifesto l’attività che lo ha condotto alla percezione dell’io.

• Ma ciò facendo egli sviluppa lati più alti della sua natura.

 

Aggiunge qualcosa di nuovo alle sue parti costitutive corporee ed animiche.

In primo luogo egli divien padrone di ciò che giace nascosto negli elementi inferiori della sua anima,

e ciò avviene per il lavoro che l’io compie entro l’anima.

Come l’uomo compia tale lavoro, appare dal confronto

fra un individuo ancora dedito ai desideri inferiori e ai cosiddetti piaceri dei sensi ed un elevato idealista.

 

Il secondo deriva dal primo, se questo abbandona certe tendenze inferiori e ne svolge altre superiori.

Allora egli agisce per mezzo dell’io sulla sua anima, nobilitandola e spiritualizzandola.

L’io diviene signore della vita dell’anima.

Ciò può andare così oltre, che nell’anima non entri alcun desiderio né alcun piacere,

senza che l’io, come autorità competente, ne permetta l’ingresso.

 

Per tal via l’intiera anima diviene una manifestazione dell’io,

mentre al principio ciò accadeva solo per l’anima cosciente.

 

In fondo, tutta la civiltà e tutto lo sforzo spirituale dell’uomo

consistono in un lavoro che ha per mèta questa supremazia dell’io.

Ogni uomo vivente oggi è impegnato in questo lavoro, lo voglia o no, ne sia o no cosciente.

• Grazie a tale lavoro si sale a gradini sempre più alti dell’entità umana.

• Per tale mezzo l’uomo sviluppa nuove parti costitutive del suo essere.

• Esse stanno nascoste sotto ciò che è a lui manifesto.