Mosè / La natura della saggezza di Mosè

L’AURORA DELLA RIVELAZIONE


 

La storia del popolo ebraico inizia con l’esodo dall’Egitto.

Questo evento può essere considerato come l’atto della sua nascita.

 

Da quel momento, infatti, inizia la vita indipendente di un nuovo popolo, che ha abbandonato l’involucro del mondo egizio. Questo distacco si compì mediante un processo complesso e doloroso, che si protrasse ancora dopo il passaggio del Mar Rosso. Solo durante i quarant’anni della peregrinazione nel deserto, avvenne la completa emancipazione dall’elemento egizio, iniziata con l’esodo. Preparare e attuare questa emancipazione, nonché dare al nuovo popolo un nuovo contenuto di cultura valevole per tutti i tempi, fu la missione di Mosè, l’iniziato egizio asceso alla conoscenza di Jahvè.

 

• Come Abramo, Isacco e Giacobbe avevano trasmesso gli impulsi fondamentali

destinati ad agire nelle disposizioni inconscie del pensare, del sentire e del volere israeliti,

• così tutto il pensare e l’anelare che si esprimeva nella coscienza di veglia di quel popolo,

si basava sulla saggezza di Mosè.

 

• Ciò che agiva nel sangue, proveniva dai tre patriarchi,

• ciò che viveva invece nella coscienza come visione del mondo e concezione della vita, proveniva da Mosè.

 

Il contributo di Mosè alla storia dell’Antico Testamento sta in rapporto con quello dei patriarchi,

come l’Io ai corpi astrale, eterico e fisico.

Mosè fece ascendere nella luce diurna della saggezza

gli impulsi della volontà, del sentimento e del pensiero che agivano nella triplice corporeità.

 

Quella saggezza era, in accordo con le condizioni evolutive dell’epoca, una saggezza rivelata,

giacché una vita autonoma di pensiero non era ancora possibile.

Essa era tuttavia di natura tale, da rivolgersi al senso del pensiero, che è uno dei sensi diurni.

 

In proposito sarebbe opportuno accennare al fatto, che le epoche della storia dell’umanità caratterizzabili come ‘prelogiche’ – nelle quali, cioè, non esisteva ancora un pensare logico espresso in concetti – non erano tuttavia né prive di pensiero, né illogiche. Al contrario, grandi pensieri guidavano gli animi, più di quanto non avvenga oggi. La coerenza, poi, con cui tali pensieri si attuavano nella pratica, rivela una forza logica, che la moderna epoca empirista ha perduto.

I pensieri erano pensieri in grande, che brillavano maestosi come stelle polari al di sopra di tutte le aspirazioni e le fatiche umane, orientandole in ogni loro aspetto con una coerenza logica che ci lascia ammirati. Quei pensieri non erano però prodotti dagli uomini: erano pensieri rivelati, donati da altezze cosmiche e con logica cosmica al senso del pensiero degli uomini.

 

Il senso del pensiero non è ancora la facoltà del pensare logico, che dà forma ai giudizi. Quest’ultimo è infatti un’attività dell’Io umano, mentre il senso del pensiero è una funzione della compagine umana.

Se oggi, ad esempio, si volessero accogliere pensieri alla vecchia maniera, si utilizzerebbe la facoltà del pensare – che include sia le percezioni del senso del pensiero, che la forza del giudizio logico – in modo simile a come si utilizzerebbero le mani, se le si usassero solo per toccare gli oggetti, anziché per lavorarli. In questo modo la facoltà del tatto potrebbe sviluppare una fine sensibilità, ma col tempo l’efficienza delle mani andrebbe perduta.

 

Se oggi i pensieri vengono solamente accolti,

senza essere pensati fino alle loro conseguenze ultime mediante la facoltà di giudizio individuale,

ne risulta una vita di pensiero apparente.

 

In questo caso l’uomo è pieno di pensieri, frutto di percezioni del senso del pensiero custodite nella memoria,

ma egli è in realtà privo di una vita di pensiero autonoma.

Potrà sentirsi molto soddisfatto di sé, giacché una simile condizione è comoda,

tuttavia in quelle situazioni in cui è necessaria un’iniziativa del giudizio,

egli si troverà più a mal partito di un altro che ‘sappia’ meno, ma si sia sforzato di pensare in modo autonomo.

Simili soggetti sono facilmente vittime delle suggestioni di massa.

 

L’atteggiamento ‘veterotestamentario’ nei confronti della conoscenza costituisce oggi un serio pericolo:

esso è un veleno, che può paralizzare le forze migliori della vita del presente.

 

Nella pratica, però, anche gli uomini che risentono maggiormente della fede nell’autorità, sentono il bisogno di giudicare autonomamente. Una tale attitudine a giudicare viene però sospinta dall’ambito più elevato della conoscenza delle verità riguardanti l’umanità e il cosmo, a quello dei fatti meramente personali. Si manifesta allora nella forma di un’insana tendenza ad approvare o disapprovare singole personalità, delle quali una è portata alle stelle, l’altra è aspramente condannata.

 

Tale è nel presente l’effetto di una disposizione unilaterale ad accogliere pensieri come contenuti di rivelazione. All’epoca dell’Antico Testamento l’effetto era invece un altro. A quel tempo i pensieri splendevano, attraverso il senso che li percepiva, fin nelle profondità dell’uomo.

Lo splendore dei pensieri agiva direttamente – quasi con potere suggestivo – sugli uomini,

che si inchinavano con reverenza innanzi ad essi, quali segni della parola di Dio.

Nella Bibbia è detto che il Dio di Israele scrisse egli stesso, di propria mano, i dieci comandamenti sulle tavole di pietra. Ciò è vero alla lettera, in un senso più profondo di quello che si suole attribuire nell’interpretazione di questo passo.

 

Mentre infatti nel presente i pensieri esercitano, tramite il sistema nervoso, un’impressione sul sangue,

a quel tempo essi si imprimevano solamente nel sistema nervoso, come semplici percezioni del senso di pensiero.

Ora, il sistema nervoso è quella parte della compagine umana, che più di ogni altra tende alla mineralizzazione.

Esso fornì le ‘tavole di pietra’ su cui Dio potè inscrivere i suoi comandamenti con le proprie mani.

 

I comandamenti splendevano come pensieri nel loro contenuto di verità,

e non già come interiore voce della coscienza, poiché questa a quei tempi non esisteva ancora.

Ci si dovrebbe rappresentare le ‘tavole di pietra’ come fatte non di pietra opaca, ma di cristallo.

I corpi astrali – la cui espressione fisica è il sistema nervoso – dei membri della comunità israelitica,

erano stati purificati in precedenza dalla ‘manna celeste’, ossia dalla forza proveniente dal manas, il sé spirituale.

 

Il sistema nervoso illuminato dalla forza del manas sarebbe perciò da immaginare come una ‘tavola di pietra’,

intendendo con questo non una pietra opaca, ma una tavola cristallina,

attraverso cui trasparivano le parole dei comandamenti di Dio.

 

I comandamenti non avevano bisogno di essere ‘giustificati’: la loro origine divina risultava dal loro intrinseco splendore. Benché a quei tempi una sensibilità morale puramente interiore non esistesse ancora, esisteva tuttavia un forte sentimento per l’autorità del pensiero divino.

Un tale pensiero non veniva accolto in forma di concetti astratti, ma di immagini.

 

Oggi non si attribuisce alcun valore conoscitivo alle immagini, le quali hanno serbato invece una funzione illustrativa. Si considera l’immagine come materiale grezzo per la formazione, mediante astrazione, dei concetti. Da molte immagini, o rappresentazioni concrete, si ricava un concetto. Si ottiene, ad esempio, il concetto di ‘uomo’ quando ci si spoglia di tutte le immagini di uomini singoli, con le loro caratteristiche individuali. Il procedimento oggi è dunque il seguente: da più immagini si ricava un concetto.

 

Se però con il senso del pensiero si desta il senso dell’immaginazione, avviene il procedimento opposto: da un’immagine si ottengono più concetti. Così, ad esempio, l’antica immaginazione biblica del ‘giardino dell’Eden’ genera una serie di concetti, quando sia trasposta in un linguaggio concettuale.

 

Il ‘giardino’ è prima di tutto un modo di essere della natura, che si distingue dalla ‘foresta’,

in quanto non è sorto in modo puramente naturale, ma in seguito a un’intelligenza che l’ha configurato.

E’ dunque espressione di un rapporto tra natura e uomo,

in cui le forze dell’uomo e quelle della natura si intessono l’una nell’altra:

l’interiorità umana esplica un’azione configuratrice sulla natura,

e la natura, da parte sua, compare nell’uomo come interiorità.

 

• Una ‘città’ è una porzione di esistenza, in cui l’intelligenza umana configura e domina ogni cosa;

• una ‘foresta’ è una pura espressione della natura, senza il concorso dell’intelligenza umana;

• un ‘giardino’ è il frutto del cooperare armonioso della natura e dell’intelligenza umana.

Otteniamo così un primo concetto dall’immagine ‘giardino dell’Eden’:

cooperazione armoniosa della natura e dell’uomo.

 

Una tale collaborazione fu però possibile, solo in quanto esisteva un sistema circolatorio comune.

La condizione paradisiaca dipendeva dunque dal fatto che le quattro correnti delle forze formative eteriche

– etere della vita, etere del suono, etere della luce e etere del calore

avevano un ritmo comune nella natura e nell’uomo.

I quattro ‘fiumi’ del giardino dell’Eden ne facevano parte, per via della loro duplice pertinenza alla natura e all’uomo.

 

Ricaviamo così un secondo concetto del giardino dell’Eden,

quello di un sistema di circolazione eterica comune all’uomo e alla natura.

Un tale confluire dell’elemento umano e di quello naturale rappresenta, da un punto di vista morale,

lo stato di innocenza dell’uomo. È questo lo stato pre-karmico dell’uomo stesso.

 

Il karma umano, come cammino di esperienza indotto dalla conoscenza del bene e del male,

inizia infatti solo con il peccato originale.

 

Il karma cosmico, per altro, esisteva già.

L’albero della conoscenza del bene e del male cresceva al centro del giardino dell’innocenza.

Il karma cosmico riguardava gli dèi che agiscono nella natura (l’albero), non l’uomo.

L’ambito della natura, in cui cresceva l’albero karmico della colpa luciferica, non aveva attinenza diretta con l’uomo.

Questi poteva mangiare il frutto di tutti gli alberi, eccetto di uno – ossia egli era legato, per un confluire di correnti,

con l’intera esistenza della natura, che non aveva parte al karma luciferico degli dèi.

 

L’uomo dimorava in un ambito dell’esistenza estraneo al karma.

Il suo oltrepassare i confini di quell’ambito fu la conseguenza della tentazione operante nel suo subconscio.

• Non fu infatti l’albero della conoscenza a tentare l’uomo, ma l’animale, il serpente.

Fu una forza non appartenente alla natura, né all’elemento consapevole dell’uomo,

a determinare il suo ingresso nel dominio del karma.

 

‘Animale’ è la forza subconscia del corpo astrale, che si insinua nella coscienza come tentazione.

 

‘Mangiando’ il frutto dell’albero della conoscenza – ossia stabilendo con quest’albero

il medesimo rapporto di forze che già lo univa agli altri alberi del giardino dell’Eden –

l’uomo divenne soggetto al karma. Iniziò il karma umano, e cessò lo stato di innocenza.

 

L’uomo fu scacciato dal suo ‘giardino’

e condotto ad una condizione di esistenza dominata dalla doppia ‘maledizione’:

quella del sudore e quella delle lacrime.

 

Il lavoro e il dolore costituiscono da allora

il karma della parte maschile e di quella femminile dell’umanità decaduta, vivente sulla terra.

 

• Poiché l’uomo, che era congiunto con una natura di impronta divina, si legò all’elemento luciferico,

cadde non solo egli stesso, ma l’intera natura cui era congiunto.

L’uomo trascinò con sé nel dominio del karma i tre regni della natura.

A quei tempi la natura aveva ancora fiducia nell’uomo, e lo seguì.

I legami che univano l’uomo paradisiaco alla natura, trassero quest’ultima a cadere con lui.

 

Nelle lunghe epoche di evoluzione karmica dell’umanità che seguirono alla caduta,

si stabilì però a poco a poco un rapporto diverso tra l’uomo e la natura.

L’uomo se ne separò per diventare un essere a sé stante.

 

Questa indipendenza dell’uomo rispetto alla natura

non fu solo la conseguenza di un unilaterale ritrarsi dell’uomo da essa,

ma altresì di un ritrarsi sfiduciato della natura stessa dall’uomo.

 

Un tempo la natura si era fidata dell’uomo e lo aveva seguito.

Essa finì però per provare una delusione nei suoi confronti.

Avvenne così che, fin da epoche remote, gli esseri del mondo elementare, operanti nella natura

persero la loro fiducia nei confronti dell’uomo.

 

L’aspetto tragico di tutto ciò, è che la liberazione della natura può venire solo dall’uomo.

La natura attende la propria liberazione dall’uomo, in quanto si ricongiunga a lei con amore

e, ricongiunto a lei, risalga là da dove essa, per amore dell’uomo, un tempo era discesa.

 

La natura attende che l’uomo ricambi l’antico amore che essa aveva nutrito per lui.

 

Ma i millenni trascorrono,

e gli esseri della natura non vedono ancora alcun segno di una propensione dell’uomo a liberarli.

Al contrario, egli li vuole assoggettare,

pretendendo dalla natura sempre più frutti di quelli che essa spontaneamente gli offre.

 

Non è soddisfatto dei doni che essa gli elargisce;

vuole strapparle tutto ciò che possiede, e sottometterla interamente ai propri fini egoistici.

 

Non si pensi che l’occultismo meccanico bianco del futuro consista nella capacità di sviluppare nuove forze,

per costringere la natura a una superiore resa produttiva.

Al contrario, il vero occultismo meccanico consisterà nella capacità dell’uomo

di riguadagnare la fiducia degli esseri elementari, affinché essi lo servano per libero amore.

 

La magia bianca non dà ordini. Essa è un reciproco scambio di servizi tra l’uomo e la natura.

Se l’anima degli esseri della natura sarà di nuovo ben disposta nei confronti dell’uomo,

se la natura udrà nella voce dell’uomo l’eco di ciò che un tempo le parlava per suo tramite,

e che essa non ha mai dimenticato, allora l’occultismo meccanico potrà subentrare alla moderna tecnologia.

La ‘meccanica’ dell’occultismo meccanico

consisterà appunto nel ripristinare i legami di fiducia e di amore tra la natura e l’uomo.

 

Il rapporto tra natura e uomo non sarà allora più quello del ‘giardino’, quale si era avuto all’inizio.

La natura, infatti, si abbandonerà interamente all’uomo, e sarà l’uomo a determinare il volto della natura.

Se all’inizio della storia del rapporto tra uomo e natura vi è un ‘giardino’, alla fine vi è una ‘città’.

 

La ‘Gerusalemme celeste’ è la città del futuro, come l’‘Eden’ fu il giardino del passato.

 

Tale è il segreto compositivo della Bibbia nel suo insieme:

il cammino dal giardino dell’Eden alla città di Gerusalemme.

Il disegno compositivo della Bibbia è identico a quello dell’evoluzione dell’umanità.

 

Per questo la Bibbia è detta Divina Scrittura: in essa si possono infatti trovare le intenzioni divine. E come, d’altra parte, l’evoluzione complessiva dell’umanità costituisce un tutto organico, così costituisce un tutto organico la Bibbia, che di quell’evoluzione offre un quadro. È compito del movimento antroposofico restituire all’umanità odierna la Bibbia come un tutto organico.

 

La saggezza di Mosè, come si può desumere dall’esempio ora illustrato, si rivolgeva al senso del pensiero, cui rispondeva ancora il senso dell’immaginazione. Non che i discepoli di Mosè credessero che l’uomo un tempo fosse vissuto in un giardino dal quale fosse stato poi scacciato: attraverso queste immagini essi coglievano piuttosto le idee relative ai nessi cosmici tra la condizione primordiale dell’uomo e l’inizio del karma dell’umanità. D’altra parte, per loro non era tanto importante l’immagine, quanto il pensiero trasmesso dall’immagine. La mentalità ebraica, infatti, contrariamente ad esempio a quella egizia, era già fortemente incline all’elemento razionale, e si era già allontanata parecchio dalla capacità di vivere intensamente nell’elemento immaginativo.

Tale è la caratteristica della saggezza di Mosè quale fenomeno storico-spirituale.

 

Se ora ci interroghiamo sulla sua essenza, la risposta data in proposito da Rudolf Steiner nel suo ciclo di conferenze sul Vangelo di Matteo è che in essa si rivelavano i segreti del tempo, al contrario della saggezza di Ermete, in cui si rivelavano i segreti dello spazio. Poco prima, nel ciclo di conferenze su I segreti del racconto biblico della creazione,1 Rudolf Steiner aveva messo in luce, in modo grandioso, i segreti cosmici racchiusi nel racconto mosaico. Si suppone che il lettore abbia familiarità col contenuto di questi cicli. Nelle pagine seguenti l’argomento sarà dunque trattato, come può esserlo per lettori che conoscano almeno nelle linee essenziali ciò che Rudolf Steiner ha comunicato sulla saggezza di Mosè.

 

Se poniamo di fronte al nostro sguardo interiore il complesso degli insegnamenti di Mosè contenuti nella Bibbia, e tradotti da Rudolf Steiner nel linguaggio della scienza dello spirito, una cosa ci colpisce soprattutto di essi: il pensiero, cui sono subordinati tutti i particolari, che l’uomo sia il coronamento della creazione.

Mosè descrive i gradi ascendenti nell’opera della creazione, fino al più alto, l’uomo.

 

La storia di questo coronamento della creazione inizia però, secondo Mosè, con il peccato originale e la ‘maledizione’ divina pronunciata contro la più alta creatura. Se si mettono l’uno accanto all’altro questi due pensieri – che cioè l’uomo è il coronamento della creazione, e che d’altra parte è di natura tale da poter meritare la maledizione – si può essere tentati di pensare che egli sia un’opera mal riuscita, e che tutto ciò che è seguito alla sua creazione, non sia stato altro che la storia dell’emendazione di quest’essere mancato. Un simile pensiero, che può forse apparire ad alcuni come una mera possibilità teorica, ha invece purtroppo svolto un ruolo considerevole nella storia dell’umanità. Comunque possa essere formulato, esso è infatti presente in tutte le espressioni del pessimismo e della misantropia. Anche gli ‘stati d’animo’ sono espressione di idee, spesso inconsapevoli.

 

L’idea che il genere umano sia un esperimento fallito,

ha agito con diverse sfumature e formulazioni nel corso dei millenni, producendo effetti rovinosi.

 

Il pensiero che Mosè pone innanzi all’umanità nella Bibbia è, al contrario, che il fine dell’uomo consista nel rendere possibile un confronto interiore tra il bene e il male, dal quale risulti quel rapporto tra gli stessi chiamato karma. Mosè vuole dischiudere alla conoscenza degli uomini il significato cosmico della quarta Gerarchia. Nella soluzione delle relative questioni è da vedersi il nocciolo della saggezza di Mosè.

 

Il mistero del karma, tale è la rivelazione principale trasmessa all’umanità da Mosè.

Per questa ragione la saggezza di Mosè è una ‘saggezza del tempo’,

poiché riguarda l’origine della corrente del karma, e del suo fluire verso il futuro.

Comprendere la saggezza di Mosè significa comprendere la natura del karma.

 

Per questo ci volgeremo a tale questione, alla quale ne premetteremo però un’altra, che può facilitarne grandemente la soluzione. Essa è formulabile nel modo seguente: come sarebbe il mondo se il karma non esistesse? Quale sarebbe in questo caso la condizione di tutte le Gerarchie, le cui azioni determinano ciò che noi chiamiamo ‘mondo’?

 

Per rispondere a questa domanda, occorre rendersi conto, che ogni Gerarchia, per quanto elevata possa essere, ha qualcosa al di sopra di sé, cui può, in certo modo, levare lo sguardo. D’altra parte ha anche, al tempo stesso, qualcosa al di sotto di sé, che costituisce il suo campo d’azione.

Se immaginassimo ora che il karma – ossia il confronto tra il bene e il male – non esistesse, le Gerarchie avrebbero di che contemplare verso l’alto, ma non avrebbero alcunché da fare nella direzione verso il basso. Potrebbero contemplare aspetti sempre più eccelsi della Divinità, ma non avrebbero alcuna lotta da sostenere per realizzare ciò che contemplano, poiché non vi sarebbero ostacoli da superare.

 

Che cosa significa, però, contemplare il divino senza combattere?

Significa vivere in un sonno cosmico.

Se non vi fosse il karma, tutte le Gerarchie sarebbero immerse in un sonno cosmico.

 

Questo è vero, non solo per le Gerarchie del bene, ma anche per le gerarchie del male. Se, infatti, non esistesse il karma non vi sarebbe alcun ambito in cui le Gerarchie del bene potrebbero incontrare le gerarchie del male: le Gerarchie del bene starebbero dalla parte del bene e le gerarchie del male dalla parte del male. Starebbero inattive le une di fronte alle altre, poichè non vi sarebbe alcun ambito ‘conteso’, nel quale, cioè, la verità del bene potesse mettere a nudo, mediante eventi oggettivi, la falsità del male. Se non vi fosse alcun ambito in cui il giudizio dell’Ente supremo potesse rivelarsi in modo convincente per entrambe le parti, né le Gerarchie del bene, né quelle del male avrebbero alcuna attività da svolgere. Esse resterebbero tutte immerse nel sonno cosmico.

 

Questo sonno cosmico non è altro che la condizione dell’universo precedente quella dell’antico Saturno, o più precisamente, la condizione cosmica da cui derivò l’esistenza di Saturno.

L’evoluzione cosmica dall’antico Saturno fino alla Terra è sostanzialmente il processo per cui è sorta nel cosmo una ‘compagine del karma’, ossia l’insieme delle condizioni di quell’ambito in cui è possibile il confronto con il male.

Le Gerarchie che parteciparono alla creazione di quest’opera provengono da un mondo anteriore. Anche Arimane proviene da un mondo anteriore. Ci si dovrebbe raffigurare la sua realtà come un iceberg di un mondo antichissimo, che appare nei ‘mari meridionali’ di questo mondo. Arimane fu indotto a penetrare in questo mondo dal fatto che Lucifero – il quale divenne tale proprio in esso – aveva creato le condizioni per il suo ingresso. L’ombra che Lucifero produceva nel fluire della luce divina, fu la porta d’accesso di Arimane nel cosmo attuale.

L’avvicinarsi di Arimane avvenne per gradi. Sull’antico Saturno la sua presenza era percepibile da lontano, mediante il freddo fisico che proveniva da lui e ne annunciava la venuta. Sull’antico Sole egli si rendeva percepibile già nel gioco di immaginazioni della tenebra. Sull’antica Luna l’avvicinarsi di Arimane fu ancora più evidente: esso si espresse nell’indurimento di quella parte della Luna stessa che non era rivolta al Sole. Il suono indurente della parola di Arimane – per così dire, la voce di Arimane – poteva essere udito mediante il senso dell’ispirazione sull’antica Luna.

Solo durante l’evoluzione della Terra, Arimane stesso entrò in questo mondo. Solo sulla Terra, dunque, l’essere di Arimane può essere conosciuto sul piano intuitivo. Con ciò l’opera della formazione del karma potè dirsi compiuta: il male entrò in questo mondo, per conquistarsi un proprio ambito di esistenza. Quest’ultimo si formò nel frattempo come una condizione ‘neutrale’, tale cioè da poter essere ricettacolo sia del bene che del male. In che cosa consiste quest’ambito?

 

Nel linguaggio dei misteri, ossia nel linguaggio con cui gli dèi parlano agli uomini,

la condizione di esistenza che corrisponde al punto neutro sul piano morale, che non è cioè né bene né male,

viene detta ‘polvere’.

Così vi è, ad esempio, una ‘conoscenza della polvere’, una ‘arte della polvere’, una ‘religione della polvere’.

Possiamo comprendere che cosa significhi ‘polvere’ nella vita spirituale, se si considera da questo punto di vista

il monologo di Faust nella prima scena della parte prima del dramma omonimo di Goethe.

Qui sono elencate le principali manifestazioni della ‘polvere’ nella vita spirituale,

in modo tale che si possa avere un sentimento di che cosa significhi tale realtà.

 

Nella Bibbia, Mosè esprime la significativa verità che l’uomo

• sia stato creato con la polvere del suolo,   • e animato dall’‘alito di vita’ di Dio.

Con questo Mosè ci dice, che la primordiale compagine umana

fu costituita in modo da presentare una doppia natura:

• da un lato essa era radicata nel divino,

• dall’altro rappresentava uno spazio spiritualmente vuoto,

ossia uno spazio che non apparteneva né al bene né al male.

 

In tal modo, però, l’uomo stesso, come una calamita, attrasse il male dentro questo mondo.

Gli offrì infatti un terreno su cui esso potè trovare appoggio.

Mentre Lucifero aprì ad Arimane la porta di accesso a questo mondo,

l’uomo gli offrì il terreno su cui insediarsi.

 

Nell’ombra di Lucifero sorse la ‘polvere’.

L’uomo terrestre formato di ‘polvere’,

costituì il campo di battaglia tra il bene e il male, ossia il karma, in questo mondo.

Il senso della creazione dell’uomo è dunque la comparsa del karma,

come possibilità di confronto tra il bene e il male.

 

All’interno dell’uomo dovrà risultare quale dei due abbia ragione di fronte all’Ente supremo,

il quale sta al di sopra del bene e del male, così come sono intesi dalla coscienza di tutti gli esseri di questo mondo.

 

Il karma è il giudizio perpetuo della Divinità nella lotta tra il bene e il male.

Esso costituisce il senso di questo mondo. Potè però sorgere in esso solo per mezzo dell’uomo.

 

L’uomo non è una creatura mal riuscita di Dio, per aver provocato la corrente della colpa e dell’espiazione nel mondo. Egli è un essere che ha realizzato lo scopo, connesso con un enorme rischio cosmico, di rendere possibile dentro di sé l’incontro tra il bene e il male, affinché quest’ultimo sia superato.

Un immenso eroismo spirituale sta all’origine dell’impulso delle individualità umane ad incarnarsi sulla terra. Profondo rispetto per gli uomini sorge nell’anima di chi riconosca questi fatti cosmici. Si tratta di un sentimento autentico e verace, poiché nulla di esteriore può indurvelo.

 

Il sacro rispetto verso l’umanità non è quello per cui si venerano i santi, bensì quello che scaturisce dal riconoscimento dell’intenzione originaria da cui proviene l’umanità caduta nel peccato. Non si pensi che le Gerarchie spirituali guardino in basso verso l’uomo come a una sorta di ‘Angelo al grado di apprendista’. Al contrario, le Gerarchie spirituali stimano l’uomo più altamente, di quanto possa giungere la sua stessa capacità di stimare. Gli esseri del mondo spirituale conoscono i peccati degli uomini, ma la gioia per tutto ciò che di positivo gli uomini fanno, è più grande della sofferenza provata alla vista di tutte le brutture di cui essi si macchiano nel mondo. Il bene che l’uomo realizza nel cosmo, vale per gli esseri del mondo spirituale più del bene prodotto da loro stessi, che è per loro una cosa ovvia.

 

La parabola del Cristo Gesù, in cui si parla della gioia per la pecorella smarrita, è un’espressione esatta della realtà cosmica per cui il bene compiuto da un peccatore – ossia da un essere che ha assunto il male nella propria organizzazione – vale più di quello di un santo – cioè di un essere che non ha assunto in sé il male.2

Un’espressione grandiosa di questa realtà fu data da Rudolf Steiner con le parole: “L’uomo è la religione degli dèi”.

 

È dunque previsto che l’umanità sia ‘peccatrice’, onde la sua caduta non è altro che la sua nascita. Il ‘peccato originale’ è il destino di ogni uomo nato sulla terra: non vi sarebbe altrimenti per lui alcun motivo di incarnarsi.

Dal mondo spirituale, che è la patria delle individualità umane, le anime discendono sulla terra con l’intenzione cosciente di immergersi nella corrente del male, per strappargli, ad ogni incarnazione, qualcosa, da riportare con sé dopo la morte, quasi come un premio per il mondo spirituale.

Quante e quali forze del bene un’individualità abbia conseguito o abbia perduto in questa battaglia, costituisce il suo karma individuale. Che essa però, ad ogni nascita, debba entrare nella corrente del male, è un karma comune a tutta l’umanità.

 

La corrente del ‘peccato originale’ scorre attraverso le generazioni, fin dalla caduta,

ed è dunque un fatto, non individuale, ma riguardante appunto le generazioni.

È la volontà oscura ciò che scorre attraverso le generazioni dal passato al futuro.

 

Questa volontà oscura è in sé cattiva, e nella misura in cui essa opera nell’uomo senza il pensiero,

l’uomo stesso è un essere distruttivo e malvagio.

A questa forza malvagia si lega l’uomo che, nella luce irradiante del pensiero, discende verso la nascita,

al fine di trasformare tale forza in pensieri.

 

Per questo motivo, è appunto la testa a costituire la metamorfosi del sistema del ricambio della precedente incarnazione – un fatto di cui Rudolf Steiner ha parlato sotto molteplici punti di vista. Se avviene però che la vita del pensiero, anziché dirigere la volontà, si dimostri così debole da diventare uno strumento della stessa, sorge di conseguenza una vita negativa del pensiero, che immette nel mondo idee malvagie.

 

Il pensiero è chiamato a dirigere la volontà, che è in sé oscura.

Questo è il motivo per cui Mosè lasciò i comandamenti della Legge al popolo d’Israele.

 

La Legge di Mosè rappresenta il contrasto

tra il pensare, che è di origine divina, e il volere, che è in sé cattivo.

 

Contrapponendo la luce siderea del pensare alla corrente oscura del peccato originale,

Mosè fece sorgere i sentimenti morali della paura, della vergogna e del pentimento.

L’uomo non è solo un essere che pensa e vuole, è anche un essere capace di sentire.

Se egli non avesse un’organizzazione del sentire, sarebbe un centauro.

Il centauro è invero un essere consistente unicamente di pensare e di volere.

Ciò che contraddistingue l’uomo in quanto tale, è il suo sentimento.

 

Nell’immagine di Mosè che riceve la rivelazione divina del pensiero sulla cima del monte Sinai, mentre ai piedi della montagna il popolo adora la bestia, si esprime il contrasto tra il pensare e il volere nella compagine umana.

Il popolo potè essere condotto all’obbedienza mediante i sentimenti della paura e della vergogna. Al tempo di Mosè, infatti, la connessione umana tra il pensare e il volere era sviluppata solo a un grado tale, da non poter consentire altro che l’obbedienza. L’uomo dell’antica Alleanza era un uomo dell’obbedienza. Evidenziando, però, mediante la Legge, questo netto contrasto, Mosè destò nei cuori umani un primo anelito verso quella condizione che avrebbero poi annunziato i profeti, per la quale la Legge è scritta nei cuori.

 

Mosè mise in luce il problema principale dell’esistenza umana prima di Cristo, mostrando

– mediante il contrasto netto tra l’esigenza divina e la natura decaduta dell’uomo –

la necessità che in un futuro sbocci nell’intimo dell’uomo stesso una forza riconciliatrice.

 

La saggezza di Mosè

• mostra dapprima l’uomo innocente nel ‘giardino’,

• rivela quindi la natura dell’uomo decaduto,

• per additare infine profeticamente la realtà futura dell’uomo ‘riconciliato’.

La ‘saggezza del tempo’ di Mosè riguarda

il cammino dell’umanità lungo l’intera evoluzione terrestre.

 

Questo cammino consiste dapprima

• nel soggiacere dell’organizzazione complessiva della natura umana al peccato,

in seguito a cui essa diventa un’organizzazione karmica,

• per evolversi quindi, come organizzazione dell’obbedienza sotto la Legge,

in un’organizzazione della coscienza morale,

• e ascendere infine alla libertà dell’organizzazione dell’amore.

 

Il cammino dell’umanità conduce

• dall’uomo del ‘giardino’ ancora estraneo al karma,

• all’uomo karmico decaduto che, prendendo parte coscientemente al conflitto tra il bene e il male,

diviene uomo della coscienza morale,

• per giungere infine all’uomo dell’amore, ossia all’uomo vittorioso.

 

• Se all’inizio del cammino vi è il giardino dell’innocenza,

quale immagine del rapporto tra l’uomo e il suo ambiente,

• alla fine vi è la città dell’amore, la Gerusalemme celeste,

figura dell’esistenza di Giove, che seguirà all’esistenza della Terra.

 

I libri di Mosè possono davvero essere chiamati il ‘Cantico dei cantici’ dell’umanità, in quanto rivelano la grandiosa intenzione cosmica che la Gerarchia umana è chiamata a realizzare, indicando la direzione lungo la quale potrà essere conseguita la futura vittoria dell’elemento divino nell’uomo.

Nel Pentateuco vive e alita lo spirito di quella corrente dell’umanità derivata dalla grande guida che, circa settemila anni fa, condusse la piccola comunità proto-ariana a battersi contro il predominio cosmico di Arimane.

Il coraggio del grande Zarathustra è il ‘sangue’ eterico che dà vita alla lettera del Pentateuco.

La saggezza di Mosè non è altro che la saggezza risorta del grande Zarathustra.

 

 


 

Note:

1 – O.O. n. 122, in italiano col titolo Genesi. I misteri della versione biblica della creazione.

2 – L’Autore sembra qui riferirsi piuttosto alla nozione di ‘giusto’ che a quella di ‘santo’. Il santo, nel senso dell’Apocalisse, non è esente per natura dal male: egli è un uomo che, per via di una sua intensa adesione al bene, lo ha accolto in sé più di altri.